Avanzando nel settimo decennio della mia vita, vien spontaneo fare consuntivi su quanto è trascorso e Horiki ha, da quarant’anni, rappresentato una figura costantemente presente. Nei consuntivi rientrano le affinità con persone che compaiono inaspettate, come da reazioni alchemiche.
A testimonianza che le affinità non sono determinate e scontate mi vien da pensare poi che l’esistenza è ben strana e sorprendente se, ad esempio nel mio caso, l’affinità più stretta dopo 34 anni di insegnamento di Discipline Pittoriche nei licei artistici sia tutt’ora con un insegnante di matematica e fisica e nello scambio profondo sul piano del ragionare e del fare artistico sia sempre stata soprattutto con Horiki, per mezzo secolo e fino alla fine!
Non ricordo i dettagli, ma all’inizio degli anni ’70 entrambi iscritti ai corsi di Pittura dell’Accademia Albertina (Horiki da Piero Martina io da Enrico Paulucci) ci siamo conosciuti, probabilmente grazie alla curiosità di Horiki che veniva in visita nelle aule di pittura del mio corso.
Ricordo invece in dettaglio i pranzi a base di gorgonzola e polenta che si svolgevano nell’abitazione/studio di Horiki nel sottotetto di via Po 21.
Sul perché Horiki, lasciando il Giappone dopo tanto vagabondare alla ricerca di un ambiente fertile alla sua creatività si sia fermato a Torino, è questione su cui non ho mai osato indagare, ma il suo fare artistico testimonia la ricerca ed il desiderio di una certa vicinanza a modelli ove alla razionalità del procedere fosse abbinata la più chiara definizione di umanità, di intelligenza umana nata e sviluppata in ambito greco (Odisseo), umanistico e rinascimentale (Piero della Francesca). Chissà se di Torino, oltreché allo schema ippodameo delle sue strade, all’eredità Casoratiana abbia anche contato nello stabilirvisi, l’incontro con menti pensanti (Gino Gorza, Pino Mantovani in primis).
A partire dal 2012 lo stesso anteporre la morte (a costo di infastidire e imbarazzare gli amici, a corto di gesti scaramantici) come fase incontrollabile ed estranea ad una razionalità pensante, abbinata dal continuo rinvio del libro che avrebbe riassunto e sistematizzato la sua figura di artista testimoniano del suo essere irriducibilmente ragionante. Solo dopo la sua scomparsa ho capito che il libro doveva uscire postumo, non potendo avere alcuna funzione con l’autore in vita.
Lui di certo in ogni incontro che andava costantemente a ricercare cercava compagni di strada, alleati e interlocutori nel solitario viaggio della ricerca artistica, invitando al ragionamento/scambio sul proprio fare, in un do ut des sempre stimolante e arricchente, a testimonianza che non è tanto il risultato, ma il tratto percorso a costituire l’essenza/l’esperienza/l’esistenza da conseguire.
Grazie a lui ho tratto motivazione e stimolo sulla necessità di scrivere del mio fare.
L’unico riferimento, seppur molto annacquato e indiretto, che posso fare sulla sua cultura d’origine, è del 2014, quando mi chiese di leggere un libro: “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery, un romanzo che lo aveva entusiasmato. Forse in questo testo era celata la formula che manteneva in equilibrio le due culture. Lessi il romanzo e ne trassi insegnamento comunicandogli le parti che più mi coinvolsero.
Oggi l’estratto dei due primi periodi dell’undicesimo capitolo (pag.197) potrebbe ben costituire e rappresentare argomento di uno dei tanti incontri avvenuti con Horiki: “…A che cosa serve l’Arte? A darci la breve ma folgorante illusione della camelia, aprendo nel tempo una breccia emotiva che non si può ridurre alla logica animalesca. Come nasce l’Arte? È generata dalla capacità propria dello spirito di scolpire la sfera sensoriale. Che cosa fa l’Arte per noi? Dà forma e rende visibili le nostre emozioni e, così facendo, conferisce loro quell’impronta di eternità che recano tutte le opere le quali, attraverso una forma particolare, sanno incarnare l’universalità degli affetti umani…”.
Guido Navaretti