Ho conosciuto Horiki da bambino, nel 1970 in un albergo di montagna. Conosceva mio padre Gino Balzola (1927-1983) come artista e poi dalla stima reciproca nacque tra loro una lunga e feconda amicizia. Fui subito attratto dalla sua personalità fiera e silenziosa, misurava le parole e stava ancora imparando la lingua italiana essendo arrivato da poco tempo in Italia. Ciò che più aveva colpito la mia attenzione di bambino era la gentilezza e l’eleganza dei modi, sicuramente legate alle sue origini giapponesi, e alla nobiltà della sua famiglia, ma anche connaturate alla sua straordinaria sensibilità estetica ed etica. In un mondo di comportamenti grossolani, lo stile di vita di Horiki si distingueva immediatamente.
Ricordo anche quando i giovani lavoratori stagionali dell’albergo erano venuti accidentalmente a sapere che lui era cintura nera di judo e lo avevano amichevolmente sfidato, lui non voleva esibire queste abilità marziali ma infine accettò di farlo, più che altro per liberarsi della loro insistenza. Il gioco si concluse rapidamente quando Horiki stese tutti con eleganza al tappeto. Ai miei occhi infantili un’aura mitica circondava questo strano personaggio imprevedibile e diverso da tutti coloro che avevo conosciuto. Gli chiesi perché aveva deciso di trasferirsi in Italia e lui rispose semplicemente: “Per amore dell’arte italiana”. Nonostante la differenza di età dimostrava interesse per le cose che dicevo e che disegnavo, dandomi consigli e spunti su cui riflettere. Nacque così anche tra noi un’amicizia, che sarebbe maturata nel tempo e che si approfondì particolarmente quando, finito il liceo e negli anni dell’università, cominciai a occuparmi seriamente di critica d’arte. Ero stato allievo di due maestri dell’arte e del pensiero come Gino Gorza e Pino Mantovani, che erano anche suoi intimi amici, e ricordo le molte serate o gite d’arte fatte insieme, anche con altri cari comuni amici artisti come Giuseppe Garimoldi, Virgilio Bari, Federico Chiales, Paolo Guasco o galleristi come Giancarlo Salzano. Gli scambi di idee e suggestioni artistiche e filosofiche nei nostri cenacoli erano così intensi che poi ci fu da parte mia il desiderio di prendere appunti, di tradurre in scrittura le riflessioni che ne scaturivano.
Fu così che nella seconda metà degli anni ’80 tanto Gino Gorza, quanto Pino Mantovani, Giuseppe Garimoldi e Horiki mi chiesero – tra i primi – di scrivere dei testi critici per presentare le loro mostre. Per coincidenza a distanza di pochi mesi, nel 1987, presentai in catalogo le due mostre di Gino Gorza e Horiki presso la Galleria Giancarlo Salzano di Torino. Il ciclo dei dipinti sulla Vera Croce, ispirati agli affreschi di Arezzo di Piero della Francesca, mi aveva profondamente colpito, si era aperta una nuova modalità di visione della pittura, realmente “epifanica”: rivelatrice di un oltre, oltre il tempo – per il dialogo profondo tra due artisti di epoche differenti – e oltre lo spazio – la sua pittura mi sembrava infatti un’eco di Bisanzio, ma una Bisanzio vista da Oriente e non da Occidente com’ero abituato a vederla io. Con una matericità (di cui Horiki mi aveva illustrato il complesso, paziente e meticolosissimo processo creativo) che mi tentava a una percezione non solo visiva ma anche tattile – a occhi chiusi – delle sue vibranti superfici. L’opera di Horiki non attirava solo lo sguardo, ma trasformava – un po’ magicamente come un incantesimo – lo sguardo in esperienza immersiva.
Immersione nell’immagine ma anche nel concetto, infatti il suo lavoro aveva stimolato molte connessioni con le mie letture filosofiche di quel periodo, da Nicola Cusano a Zeami Motokiyo, da Elémire Zolla ad Albino Galvano, e avevo ritrovato in essa una sintesi straordinaria tra pittura occidentale e orientale, tra ermeneutica e metafisica. Il nostro dialogo da quel momento era diventato gioco di risonanze e rilanci, in un’affinità che aveva anche radici affettive nei ricordi infantili e familiari, e non si era più interrotto anche se il tempo e soprattutto la distanza fisica (negli anni ’90 mi sono trasferito a Roma dove ho vissuto per più di vent’anni) lo aveva reso più rarefatto. Ricordo di aver sottoposto alla sua lettura i miei primi racconti ricevendo da lui osservazioni penetranti e consigli letterari (soprattutto sulla letteratura giapponese che conoscevo poco) , finché fu molto contento quando gli chiesi di illustrare con suoi disegni un mio racconto visionario dedicato a lui e alla sua opera (Il passaggio degli dei dimenticati, in Andrea Balzola e Pino Mantovani, Storie di pittori, Fògola editore, Torino 2002, pp.115-130).
Le visite alla magnifica casa dove Horiki si era trasferito, portandovi anche il suo studio, erano un appuntamento a cui tenevamo molto entrambi, e mi rammarico che quegli incontri non siano potuti essere più frequenti. La distanza era compensata dalle telefonate o dai messaggi email che ci mantenevano reciprocamente aggiornati e negli ultimi anni dai social media (Facebook) a cui Horiki si era affacciato con curiosità, una curiosità vivacissima e partecipe, con una freschezza quasi infantile, che ai miei occhi rendeva la sua vecchiaia una dimensione sospesa, senza tempo.
Non pensavo che potesse morire, ed infatti per me non è mai mancato, lo sento vicino come una presenza tutelare, come un personaggio del Teatro Nō.
Andrea Balzola
Accademia Albertina, Torino