La mia vita è la mia opera. Come sarà nel momento sicuro della probabilità? Ecco, io sono ancora qui.
Questa è la testimonianza dell’andamento della mia conversazione con me stesso e di come sono concepito dagli altri, sia un ringraziamento agli amici che hanno partecipato a questo mio cammino”.
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1969 - 1984
IMPRONTE
“Un quadro minimo di Horiki: la materia respira generando solchi e crateri, si contrae o si distende come pelle viva; il colore esiste solo come allusione a spessori differenti, a differenti densità e resistenza della materia; le vibrazioni tonali sono stati transitori, episodi di un tempo che, avverto, non è il “mio tempo”.
1984 - 1994
STORIA DELLA VERA CROCE
“Il lavoro di Horiki Katsutomi (Tokio, 1929) apre una scommessa con il visibile. Giunge a un tale vertice di rarefazione, a un tale distacco da ogni possibilità di narrazione, di appiglio, di declinazione formale da mettere in questione la natura stessa della pittura. Anzi, la natura stessa del dire.
Si avverte nel suo lavoro non la pratica della 'variazione sul tema', ma addirittura la negazione del variare: il permanere identico a se stesso, quella qualità che i filosofi medioevali attribuivano a ciò che è divino”.
“Ciò che appare è quasi l’immagine stessa del tempo, di cui le tele di Horiki restituiscono gli aspetti della combustione e dell’erosione. E la superficie del quadro risulta in effetti lavorata dal tempo, dal tempo della pittura: una parete minimale di “tessere” con motivi geometrici, impregnata di colori trascoloranti, e riquadrata iconicamente da una cornice neutra dipinta a tutto sesto o a sesto ribassato.
Così l’opera di Horiki rivela una doppia tensione, particolarmente suggestiva per le avventure contemporanee dell’arte. In primo luogo, la tendenza tutta orientale a sintetizzare in cifra ideografica/ simbolica la storia del pensiero e gli eventi della cultura, in modo tale che il divenire storico si manifesta nell’apparente atemporalità di un linguaggio emblematico. […] Mentre la volontà mimetica del naturalismo occidentale ha creato una netta separazione tra segni naturali e artificiali, facendo sì che quando questi s’incontrano ne nasca, per dirla con Barthes, una “società di segni vergognosi”, ovvero di segni la cui natura artificiale simula i segni naturali mascherando l’artificio rappresentativo”.
“Davanti a queste “piccole finestre in attesa di aprirsi sul mondo” (E. Pontiggia) Horiki ha sistemato una sorta di griglia segnica, un codice binario arcaico, fatto di tanti piccoli segmenti ripetuti all’infinito, i cui contorni, a tratti, si dissolvono come granelli di sabbia staccati dal vento”.
1995 - 2010
ODISSEA
“La pittura di Katsutomi rifugge dall’agire, dal fare. Nei suoi dipinti la visione diventa pensiero. Le sue opere (anzi la sua opera, perché Horiki lavora da tutta la vita a un’opera sola, come si dice che facciano i poeti, che sono sempre autori di un solo libro) si concentra su un colore che dà il senso dell’immobilità: di una contemplazione che non nega l’azione, ma la supera. Nelle sue opere non succede niente, non accade niente. C’è solo un assoluto silenzio. Nelle sue opere, insomma, si assiste a una sorta di respiro che diventa luce.
Si potrebbe interpretare la pittura di Horiki come una musica che si rende visibile: una musica mentale, sommessa, come un coro a bocca chiusa, perché. in quei punti che scandiscono lo spazio c’è l’intuizione di una sottile musicalità”.
“Il viaggio artistico di Horiki parla, fondamentalmente, di una esplorazione filosofica. Horiki usa una imagery significante, un linguaggio figurato”.
“Nei suoi quadri due elementi predominano e colpiscono: i colori e la luminosità. Essi sono perfettamente in simbiosi l’uno con l’altro. Nessuno domina l’altro perché tutto è armonia ed equilibrio.
Horiki usa con una leggera ironia un’immagine spoglia per esprimere concetti elevati. Non rivela direttamente allo spettatore i suoi pensieri. Rothko definiva le sue opere come: “L’espressione semplice di un pensiero complesso”, commento che si può applicare ai lavori di Horiki”.
“L’arte di Horiki è pittura di sintesi e concentrazione, di armonia e silenzio che nasce dalle sue radici orientali. Lo sfondo è dato da infinite velature cromatiche, palpitanti strati di colore che possono uniformarsi nel rosso-violaceo, in tonalità brune o nel chiarore del rosa-bianco. L’artista ha sperimentato molte varianti tonali, senza mai fermare la sua ricerca. La pittura diventa una necessità esistenziale”.
“Già nella Storia della Vera Croce, come ultimamente per l’Odissea, Horiki distilla un discorso informato a una mistica dell’immagine che, al limite, propone l’aniconismo come via per il recupero dell’invisibile, solo così – pare dirci – si potrà impedire che il simbolo stesso della croce si svaluti, cessando di rappresentare un’idea di salvezza per diventare idolo”.
“Non so dire se la pittura di Horiki scaturisca dall’incontro tra la sapiente meditazione orientale e la sensibilità occidentale; se la luce pierfrancescana dei suoi dipinti che, per sua stessa dichiarazione, ne ha mosso la ricerca pittorica, sia frutto di un “incontrare” o di un “ritrovare”. Piero della Francesca gli appartiene, come gli appartiene Odisseo. Le sue tele abitano gli spazi profondi della nostra memoria, del nostro “sapere”, occupano il delicato intervallo fra la commozione e il silenzio, e così facendo dichiarano il loro essere arte.
Nei dipinti di Horiki il tempo è sospeso, non per il manifestarsi del sacro, ma per il superamento della transitorietà. Il narrare non necessita del prima e del dopo, è implicito alla materia pittorica, è luce e colore, e ad essa appartiene l’eterno viaggio di Odisseo, così come il ripetersi del gesto fino all’incontro incantato del vero“.
“Horiki, senza dubbio è riuscito nel suo lavoro a fare una valida interconnessione fra l’attitudine orientale zen per la riduzione all’essenziale delle forme e quella occidentale che ha caratterizzato le ricerche della pittura cosiddetta minimalista o analitica degli anni sessanta/settanta, e cioè fra una concezione filosofica positiva del vuoto e dell’assenza e una tensione verso l’azzeramento dell’immagine, in termini di concreta adesione alla fisicità primaria del processo di realizzazione della pittura”.
“Tra mare e cielo (o, potremmo dire, tra vita e morte) la navigazione di Ulisse procede senza riferimenti, senza conoscenze certe, senza bussola. L’Odissea di cui parla Horiki non è più un libro, è la vita che si ripete uguale, in una recita immutata.
L’immagine non è creata per via di porre, ma per via di levare. Nasce da un alitare leggero del colore, da “velature” sovrapposte: dove col termine “velature” non si intende una tecnica, ma un velo metafisico, un velo di luce che si deposita sulla tela”.
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